ELEGIA DUINESI di R. M. Rilke ELEGIA QUARTA

Audiolibri in Italiano e in lingua originale.

legge valter zanardi

IV ELEGIA
Oh alberi di vita, quando il vostro inverno?
Noi non siamo concordi. Non siamo come gli uccelli
da passo in armonia. Superati, tardi,
ci opponiamo d’improvviso ai venti
cadendo così in un lago d’indifferenza.
Conosciamo insieme il fiorire e l’inaridire.
Ma in qualche luogo leoni incedono ancora
e non sanno finché loro dura maestà d’impotenza.

Ma in noi, quando intenti pensiamo solo all’Uno,
già è avvertibile il dispiegarsi dell’altro.
Inimicizia è ciò ch’è più prossimo a noi. Non giungono
forse sempre gli amanti, l’uno nell’altro, a confini,
loro che pure si promettevano distese, caccia, dimora.
Per il disegno d’un istante, s’appresta
a fatica uno sfondo a contrasto,
che lo si possa vedere; per noi c’è tanta
chiarezza. Non conosciamo il contorno
del sentimento: solo ciò che da fuori lo informa.
Chi trepido non s’è seduto davanti al sipario del cuore?
Alla fine s’aprì: e di scena era l’addio.
Facile da capire. Il giardino ben noto e lieve
ondeggiava: ecco dapprima entrò il danzatore.
Non quello. Basta. Anche se si muove leggero,
è travestito, diventa un borghese,
che entra nella sua casa per la cucina.
Non le voglio queste maschere dimezzate,
meglio la marionetta. Che ha la sua pienezza.
Voglio reggere il manichino, e il filo
e il suo viso d’apparenza. Qui. Sono al cospetto.
E se i lumi si spengono, se anche mi
vien detto: è finita -, se anche dalla scena
spira a me il vuoto nel grigio soffio dell’aria,
se anche nessuno dei miei muti antenati
siede più accanto a me, nessuna donna, e nemmeno
l’adolescente con il suo fisso occhio castano.
Io ancora rimango. Sempre c’è da guardare.

Non ho ragione? Tu, che tanto amara gustavi
la vita, padre, assaggiando la mia,
il primo torbido infuso del mio Dovere,
e sempre via via riassaggiandola, mentre crescevo,
preoccupato dal persistente sapore di così strano
avvenire, scrutavi il mio sguardo velato,-
tu, padre mio, da quando sei morto, spesso,
nella mia speranza, dentro di me, t’angosci,
e rinunci alla quiete, quella dei morti, ai loro spazi
di quiete, per quel minuscolo assaggio del mio destino,
dimmi: non ho ragione? E voi, non ho ragione, ditemi,
voi che mi amaste per quel piccolo inizio d’amore
ch’ebbi per voi, da cui sempre andai via,
perché lo spazio nel vostro volto,
quando l’amavo, diventava per me spazio di mondo,
in cui non eravate più… Non ho ragione se ho voglia
d’attendere davanti al teatrino delle marionette,
anzi, di fissarlo così pienamente che, per dare
finalmente risposta al mio sguardo, un angelo
burattinaio debba venire a dar vita ai manichini.
Angelo e marionetta: allora è finalmente spettacolo.
Allora insieme s’unisce ciò che vivendo
qui sempre da noi si separa. Ecco che nasce
ora soltanto dalle nostre stagioni il cerchio
che abbraccia tutto il mutamento. Sopra noi, lassù,
allora recita l’angelo. Vedi, i morenti,
non dovrebbero forse avere sospetto che
sia solo pretesto tutta la nostra opera qui.
Nulla è lo stesso. Oh, ore d’infanzia quand’era
dietro le figure soltanto passato
e davanti a noi non v’era il futuro.
Certo crescemmo, e talvolta nell’urgenza
d’essere grandi presto, fors’anche per amore
di quelli che altro non avevano che l’esser grandi.
E così fummo nel nostro procedere soli,
contenti di ciò che perdura, e sostammo
lì nello spazio di mezzo tra mondo e giocattolo,
in un luogo che fin dall’inizio
fu fondato per un evento puro.

Chi può mostrare un bambino com’è veramente? Chi lo può
porre nella costellazione e dargli la misura della distanza
nella sua mano? Chi può plasmare la morte del bimbo
nel pane grigio che indurisce – o lasciarla a lui
nella bocca rotonda, come il torsolo
di una mela matura?… È facile comprendere
gli assassini. Ma questo: la morte,
la morte intera, ancor prima della vita,
contenerla con dolcezza, senza essere malvagi,
questo è indescrivibile.
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