09 – ELEGIE DUINESI di R. M. Rilke, ELEGIA NONA

Audiolibri in Italiano e in lingua originale.

legge valter zanardi
IX ELEGIA
Perché se dunque è concesso il termine dell’esistenza
trascorrere come l’alloro, un poco più scuro d’ogni
altro verde, con piccole onde su ogni bordo
di foglia (come il sorriso di un vento) -: perché allora
la coazione all’umano, – e, sfuggendo il destino,
anelare al destino…?

Oh, non perché è felicità
questo prematuro profitto di una prossima perdita.
Non per curiosità, o per esercizio del cuore,
che anche nell’alloro sarebbe…

Ma perché essere qui è molto, perché sembra
che tutto ciò che è qui abbia bisogno di noi: questo fugace
che stranamente ci concerne. Di noi, i più fugaci. Ogni cosa
una volta, solo una volta. Una volta e mai più. E noi pure
una volta. Un’altra mai più. Ma questo
essere stati una volta, anche solo una volta,
essere stati terreni, sembra irrevocabile.

Per questo insistiamo, e lo vogliamo compiere,
lo vogliamo tenere nelle nostre semplici mani,
nello sguardo più che colmato, nel cuore senza parole.
Questo vogliam diventare. – A chi darlo? Meglio
trattenere tutto per sempre… Ah, ma di là, ahimè,
nell’altro rapporto, cosa portiamo? Non lo sguardo, che qui
lentamente imparammo, e nessun evento di qui. Nessuno.
Dunque i dolori. Dunque, anzi tutto, l’esser peso,
dunque la lunga esperienza dell’amore, – dunque
il mero indicibile. Ma poi
tra le stelle, che vale: loro sono meglio indicibili.
Ma il pellegrino dal pendio sulla cresta del monte non
porta a valle una mano piena di terra, indicibile a tutti,
ma una parola conquistata, pura, la gialla e celeste
genziana. Noi siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra,-
al più: colonne, torre… ma per dire, capisci,
per dire così, come mai le cose stesse
intimamente sapevano d’essere. Non è forse l’astuzia segreta
di questa terra ammutolita, quand’essa preme gli amanti,
che nel loro sentire ogni cosa s’incanti?
Soglia: cos’è per due
amanti la propria antica soglia di casa
logorare un poco, anch’essi, dopo i molti in passato,
e prima di quelli che verranno…, leggermente.

Qui è il tempo del dicibile, qui la sua patria.
Parla e proclama. Più che mai
precipitano le cose, di cui potremmo avere esperienza,
perché le sopprime e sostituisce un fare senza figura.
Un fare sotto croste, che presto s’infrangono, quando
dentro si dispiega l’agire e si pone altri limiti.
Tra i magli resiste
il nostro cuore, come la lingua
tra i denti, che sta tuttavia
sempre pronta alla lode.

Celebra all’angelo il mondo, non quello indicibile, a lui
non puoi vantare la gloria del tuo sentimento; nell’universo
dov’egli più sensibile sente, tu sei novizio. Mostragli allora
la semplice cosa, che, plasmata di generazione in generazione,
come cosa nostra vive, presso la mano e lo sguardo.
Digli le cose. Ne sarà stupefatto; come lo fosti tu
davanti al cordaio a Roma, o al vasaio sul Nilo.
Mostragli come può essere felice una cosa, innocente, nostra,
e come anche il dolore che piange si schiude puro alla forma
e serve da cosa, o si estingue facendosi cosa -, e beata
sfugge al di là del violino.- E le cose che vivono nel
trapassare capiscono che tu le lodi; caduche
fidano che in noi, i più caduchi, sia ciò che salva.
Vogliono che nell’invisibile cuore noi le si debba trasfigurare
oh, all’infinito, dentro di noi! chiunque noi siamo alla fine.

Terra non è questo che vuoi: invisibile
emergere in noi? – Non è il tuo sogno,
essere una volta invisibile? – Terra! Invisibile!
Che cosa, se non metamorfosi, è il tuo urgente comando?
Terra, cara, io voglio. Oh credi, non sono più necessarie
le tue primavere a guadagnarmi a te -, una,
ah, una sola è già troppo per il sangue.
Senza nome, da tanto, a te mi sono votato.
Sempre fosti nel giusto, e la tua sacra scoperta
è la familiarità con la morte.

Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro
vengono meno… Innumerevole esistenza
mi si sprigiona nel cuore.

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