legge valter zanardi
VII ELEGIA
Non più implorazione, non più, oh voce ormai maturata,
sia la natura del tuo grido; gridasti, è vero, puro come l’uccello,
quando l’avanzata stagione lo solleva, quasi dimentica
che sia un animale in affanno e non solo un cuore isolato
quello che scaglia nel chiaro, nell’intimo cielo. Come lui,
non meno, vorresti implorare -, che, ancora invisibile,
l’amica s’accorga di te, silenziosa, che una risposta
pian piano in essa si desti, che s’accenda ad udirti,-
che al tuo ardito sentire risponda del suo sentire la fiamma.
Oh, anche la primavera capirebbe -, lì non c’è luogo
che non abbia il tono dell’annunciazione. Prima è quel
piccolo suono che affiora e chiede, a cui, nel silenzio che
cresce, un giorno puro risponde avvolgendolo nel suo tacito sì.
Poi i gradini, i gradini d’appello del su, su verso il tempio
sognato di ciò che è venturo -; poi il trillo, fontana,
che all’urgenza del getto apparecchia già la caduta
in un gioco carico di promesse… E davanti a sé l’estate.
Non solo i mattini tutti d’estate,- non solo com’essi
si mutino in giorno, raggiando già prima d’essere.
Non solo i giorni, che teneri sono coi fiori, e che in alto,
forti e possenti, avvolgon la forma degli alberi.
Non solo la devozione di queste forze dispiegate,
non solo le vie, non solo i prati al crepuscolo,
non solo dopo il tardo temporale il respiro della trasparenza,
non solo l’approssimarsi del sonno e d’un presentimento, la sera…
ma le notti! Ma le alte notti d’estate,
le notti, e le stelle, le stelle che curan la terra.
Oh essere morti una volta, e saperle interminate
tutte le stelle: allora come, come dimenticarle!
Vedi, qui chiamerei l’amante. Ma lei non sola
verrebbe… Verrebbero da fragili tombe
fanciulle per stare… E come potrei dare dei limiti,
io, al grido che chiama? Chi è sprofondato sempre
cerca ancora la terra. – Bambini, una cosa quaggiù,
una volta afferrata, deve valere per molte.
Il destino, credete, non è più della densità dell’infanzia;
come spesso superaste ansando chi vi fu caro
ansando in corsa celeste verso nulla, nell’aperto.
Essere qui è splendido, lo sapevate, fanciulle, anche voi,
voi in apparenza defraudate, sommerse -, voi, nei più squallidi
vicoli delle città, in suppurazione, oppure aperte
all’abisso. Perché c’era, per ognuna di voi, un’ora, forse
meno di un’ora, un interstizio fra due attimi, appena
misurabile con le misure del tempo -, e qui lei ebbe
esistenza. Tutto. Le vene colme di esistenza.
Ma noi facilmente dimentichiamo ciò che ridendo
il vicino disapprova o c’invidia. Visibile
vogliamo elevarla, poiché la felicità più visibile
ci si rivela soltanto se intimamente la trasformiamo.
In Nessundove, amata, sarà mondo, se non intimamente. La nostra
vita procede del mutamento. E sempre più misero svanisce
il di fuori. Dove una volta c’era una durevole casa, si mostra
obliqua un’astratta figura, totalmente legata al concetto,
come se abitasse ancor tutta dentro il cervello.
Vasti cumuli di forza si crea lo spirito del tempo, informi
come la tensione e l’urgenza che da tutto esso procura.
Templi più non conosce. Questo dispendio del cuore
lo risparmiamo in segreto. Sì, dove sopravvive ancora
una cosa, una cosa un tempo implorata, servita in ginocchio-,
si tende già com’è, essa, nell’invisibile.
Molti non se n’accorgono più, senza più il privilegio,
di costruirla interiormente ora, con statue e pilastri, più grande!
Ogni sorda svolta del mondo ha questi diseredati
a cui non appartiene il prima, né ciò che è imminente.
Perché anche l’imminente è remoto agli uomini. Noi
questo non deve smarrirci; ma rafforzare in noi la difesa
della ancor riconosciuta figura. – Questa una volta stava
tra gli uomini, stava dentro il destino, dentro il suo
annientamento, dentro il non saper verso dove, come cosa che è,
e dai più sicuri cieli piegava a sé le stelle. Angelo,
a te la mostro, qui! Nel tuo sguardo stia
redenta alla fine, finalmente esibita.
Colonne, pilastri, la sfinge, l’ergersi slanciato,
grigio, su una città in rovina o straniera, del duomo.
Non fu un miracolo? Stupisciti angelo, che noi siamo così
noi, e tu, Grande, raccontalo, che questo potemmo, ché il mio fiato
non basta alla lode. Così non abbiamo nemmeno
disperso gli spazi, questi spazi che ci proteggono,
che sono nostri. (E quanto temibilmente grandi devono essere,
se in millenni il nostro sentire non li ha potuti colmare).
Ma una torre era grande, non è vero? Angelo: lo era, –
grande pure al tuo cospetto? Chartres era grande -, e la musica
andava ancor oltre, e ci trascendeva. E anche un’amante –
anche sola, alla notturna finestra…
non giungeva forse al tuo ginocchio – ?
Non credere che io supplichi.
Angelo, e se anche ti supplicassi! Tu non vieni. Perché
il mio appello è sempre colmo di via di qui; contro sì forti
correnti non puoi avanzare. Il mio appello è
un braccio teso. E la mia mano protesa ad afferrare
resta aperta davanti a te
a difesa e a monito,
inafferrabile, distesa.
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