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05 ELEGIE DUINESI di R. M. Rilke, ELEGIA QUINTA

legge valter zanardi
V ELEGIA
Dedicata alla Signora Hertha Koenig

Chi sono, dunque, dimmi, i girovaghi, questi ancor più
fugaci di noi, che fin dall’inizio urgendo
li torce – per chi, per amore di chi –
un mai placato volere? Li torce appunto,
li piega, li avviluppa, li tiene oscillanti,
li lancia e li riafferra, e come da un’aria
oleosa, più liscia, precipitano
sul consunto tappeto, più liso per il loro
eterno saltare, su questo perduto
tappeto nell’universo.
Disteso lì come un impiastro, come se il cielo
della periferia proprio lì avesse ferito la terra.
E appena più in là
eretti, ecco, esibite: dell’esserci
la grande iniziale…, eppure i più forti
fra gli uomini li rotola ancora, giocando, la mano
che sempre torna ad artigliare, come quella di Augusto
il Forte, a tavola, un piatto di peltro.

Ah, e intorno a questo
centro, la rosa della contemplazione:
fiorisce e si sfoglia. Intorno a questo
pestello, al pistillo, toccato dalla fioritura
del proprio polline, fecondato di nuovo
ad apparenza di frutto della non gioia, mai
conscia, luccicante nella fragile scorza
d’un lieve apparente sorriso, del suo disinganno.

Qui: l’atleta, rugoso, avvizzito,
il vecchio, che ormai suona soltanto il tamburo,
rattratto nella sua pelle potente, come se questa
avesse prima contenuto due uomini, e uno
giacesse ora già al cimitero, mentre l’altro sopravvive,
sordo, e talvolta un poco
smarrito in quella vedova pelle.

Ma il giovane, l’uomo, quasi fosse figlio d’un dorso
e di una monaca: contratto, compiuto nella tensione
dei muscoli e della purezza.

Oh voi
che un dolore, mentre era ancora minuscolo,
v’ebbe in possesso come un giocattolo, in una delle sue
lunghe convalescenze…

Tu, che con la caduta
che solo i frutti conoscono, immaturo,
cadi ogni giorno cento volte dall’albero del movimento
costruito insieme (che più rapido dell’acqua in pochi
minuti ha primavera, estate, e autunno) –
cadi a capofitto giù nella tomba:
talora, a metà d’una pausa, un viso amato
in te vuol generarsi e spingersi alla rara
tenerezza di tua madre, ma nel tuo corpo si perde,
che lo logora in superficie quel volto appena
timidamente abbozzato… E ancora una volta l’uomo
per il salto batte le mani, e prima che più nitido
un dolore divenga sul bordo del tuo cuore in continuo
galoppo, ecco giunge il bruciore nella pianta dei piedi
ancor prima del suo apparire, e il corpo subito
stana dagli occhi due lacrime.
Eppure, ciecamente,
il sorriso…

Angelo! Prendi, raccogli l’erba medicinale dai piccoli fiori.
Procura il vaso, proteggila! Mettila tra le gioie,
nostre non ancora dischiuse; lodala sull’urna amica
con lo spicco fiorito dell’iscrizione: “Subrisio saltat.”.

E tu, dunque, amorosa,
tu su cui le gioie più rapinose
passarono mute. Forse sono
felici per te le tue frange -,
o sul turgore
dei giovani seni la verde metallica seta
si sente infinitamente blandita, e nulla le manca.
Tu,
sempre altrimenti, sull’oscillante equilibrio
di ogni bilancia, frutto dell’indifferenza
messo a mercato, apertamente tra le spalle.

Dove, oh dove è il luogo – lo porto nel cuore -,
dove erano ancora ben lungi dal poterlo, dove ancora
cadevano via l’uno dall’altro, come copulando
due bestie mal assortite;-
dove il peso è ancora pesante;
dove ancora, malgrado il vano rotear
di bastoni, i piatti oscillano
e cadono…

E d’improvviso in questo faticoso Nondove, d’improvviso
l’indicibile sito dove il puro Nonabbastanza
inconcepibilmente si muta- si proietta
in quel vuoto Fintroppo.
Dove il conto con mille cifre
si risolve senza numero alcuno.

Piazze, o piazza di Parigi, sterminato teatro,
dove la modista Madame Lamort,
le inquiete vie della terra, nastri infiniti,
annoda e piega, e poi nuovi nodi inventa,
increspature, fiori, coccarde,
frutti artificiali,- tutti
falsamente dipinti, – per i cappellini
d’inverno, a buon mercato, del destino.
…………………………….
Angelo!: c’è forse un luogo, che noi non sappiamo.
Lì su un tappeto indicibile, possano gli amanti, che qui mai
giunsero fino a poterlo, mostrare le loro ardite
alte figure dello slancio del cuore,
le torri del piacere, le scale che a lungo,
finché terra non c’era, s’appogiavano solo
l’una all’altra oscillando – e lo potessero davanti
agli spettatori in circolo, muti innumerevoli morti:
le getterebbero le loro ultime monete della felicità,
sempre risparmiate, sempre nascoste, incognite a noi,
ma eternamente valide, davanti alla coppia,
che ride infinitamente davvero, sul placato
Tappeto?

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